No, non sono ancora riuscito a visitare tutti i padiglioni dell’Expo. La giornata tipo alla manifestazione è fisicamente massacrante, non ne puoi mettere troppe di seguito, specie se vuoi soffermarti ad assorbire il vero sapore nascosto dietro le proposte che tutti i Paesi del mondo hanno portato a Milano, prima che tutto finisca e venga fatta tabula rasa (o qualcos’altro) dell’area di Rho.
Dopo aver raccontato il mio approccio all’Expo nel primo articolo [Il mio Expo, con la prima photogallery], con questo post mi piacerebbe condividere le mie impressioni e le valutazioni sui alcuni padiglioni, sperando di ricevere anche i tuoi giudizi in merito alle varie installazioni: una passeggiata ideale attraverso le proposte più interessanti o quelle che hanno deluso le mie aspettative.
Una chiacchierata – che si conclude con una seconda photogallery – che non pretende assolutamente di essere esaustiva né sull’argomento Expo, né sul messaggio che i singoli Paesi hanno voluto dare attraverso le loro opere.
Agli Emirati Arabi Uniti ho già dedicato un articolo [Unire le Menti, Creare il Futuro], così come ho appena finito di redigerne uno specifico su Palazzo Italia (ancora non pubblicato), di cui, quindi, non parlerò.
Ho anche già accennato al Padiglione dell’Azerbaijan, che rimane uno dei miei favoriti: legno, luce, musica, tradizione, il tutto presentato in un edificio fluido progettato da Simmetrico Network: l’architettura e la realizzazione degli interni sono più interessanti e più forti del messaggio che vi sta dietro, o dentro, incentrato sullo sviluppo sostenibile, la biodiversità e la salute delle future generazioni.
Una graditissima sorpresa è stato il padiglione dell’Austria. Avevo già avuto modo di vedere alcune fotografie da cui, però, non ero riuscito ad apprezzare molto. Anzi, mi lamentavo di non riuscire a scorgerne l’architettura, rispetto ad altre installazioni più appariscenti: solo alberi, verde, alberi e verde.
Entrando, ho capito perché: il padiglione austriaco non è un edificio da vedere, ma un’area da vivere! È riprodotto il microclima di un bosco austriaco e sviluppato il concetto del respiro come risorsa per l’uomo: un’atmosfera fantastica, che si percepisce sin dall’ingresso in questo bosco che ti porta lontano mille anni luce dalla zona dell’Expo in cui regna sovrana, invece, la confusione. Sembra di stare in un altro mondo, dietro il quale è sottolineata l’importanza di essere consapevoli e responsabili nell’uso delle risorse.
Un’oasi realizzata dal gruppo multidisciplinare Team.Breathe.Austria.
Il padiglione del Brasile è curioso e si presenta con una rete sospesa sulla zona in cui sono mostrati tutti i prodotti dell’attività agroindustriale del Paese. Siamo invitati a camminare, direi arrampicarci, su questa rete che collega i tre piani del padiglione: una trovata che fa di quello del Brasile uno degli edifici più visitati dell’Expo.
Atipico e molto particolare è anche il padiglione del Regno Unito, un edificio che definirei etereo: lo cerchi ma, ad uno sguardo lontano, l’architettura si dissolve nell’aria. Ispirato all’attività delle api, rappresenta un alveare, composto da una complessa struttura in alluminio ideata da Wolfgang Buttress in cui “le luci sono realmente collegate ognuna ad un’ape in un vero alveare di Nottingham, il cui movimento in diretta determina il grado di luminosità delle singole lampadine”.
Altra interessante sorpresa è stato il padiglione della Bielorussia che mi ha colpito nell’eleganza della zona espositiva interna più che dall’enorme “Ruota della vita” che ne caratterizza l’architettura con la copertura vegetale. Mi ha conquistato l’insieme, che definirei sobrio ed accattivante, contraddistinto da una parete in legno a ricorsi orizzontali illuminati con luci colorate che inquadrano una serie di schermi sui quali è riportato il messaggio, legato al tema dell’Expo.
Non mi è dispiaciuto il padiglione del Belgio, incentrato sull’impronta sostenibile che il Paese sta dando al proprio futuro, caratterizzato da innovazione tecnologica.
Il padiglione è completamente sostenibile, ideato da Patrick Genard che ripropone una soluzione di pianificazione urbanistica (Lobe City) rappresentata in piccola scala, riferita ai modelli di architettura tradizionale locale.
Al di là di questo, l’insieme è elegante grazie al bilanciamento tra strutture in legno e uso del vetro, che culmina nella grande struttura geodetica che contiene il cuore del padiglione.
Mi aspettavo qualcosa di più dal padiglione cinese, inquadrato all’esterno da un tappeto di fiori gialli e da un edificio dall’enorme copertura realizzata con oltre mille pannelli di bambù, uno dei più complessi dell’intera manifestazione (interessante il documento che ho trovato in merito). Si vuole evidenziare l’integrazione tra l’uomo e la natura.
All’interno, un’enorme installazione con tubi illuminati a led che ricreerebbero il “campo della speranza”, se solo si potessero apprezzare meglio alla luce del giorno che ne mortifica la funzione.
Molti dei padiglioni asiatici o africani rappresentano architetture tipiche, che si differenziano da quelle contemporanee di “stile internazionale”. Non per questo, sono meno affascinanti. È il caso, ad esempio, di Oman, Sudan, Marocco, Qatar, Nepal e di molti altri, che meritano un ragionamento a parte in un articolo dedicato.
Sebbene sia dell’area africana, è molto differente, invece, il padiglione dell’Angola che, rispetto a quanto mi sarei aspettato, ha fatto le cose in grande. E, direi che le ha fatte bene, nella presentazione di un vero e proprio viaggio attraverso il cibo e le tradizioni del proprio Paese.
Un edificio sostenibile, realizzato con decorazioni in legno e metallo, illuminato all’esterno con luci colorate che, di sera, catturano l’attenzione del visitatore e caratterizzato, all’interno, da un baobab stilizzato composto da schermi video.
Tra gli altri, non potevo non fare tappa al padiglione dell’impresa Vanke, leader del settore immobiliare cinese, progettato da Daniel Liebeskind come una grande scultura. E’ stato il primo ad essere completato nel cantiere dell’area dell’Expo, ha una forma molto fluida, ispirato alla tradizione filosofica e all’arte del Paese: una doppia passerella a spirale che conduce il visitatore fino alla terrazza panoramica che si affaccia sull’Albero della Vita, il lago e Palazzo Italia.
La mia impressione è che la forma non sia propriamente pulita e armonica, malgrado la morbidezza della spirale, ma nel complesso l’edificio con le quattromila scaglie rosse in grés (che ricordano le squame di un serpente) ha un sua personalità forte.
Ha deluso le mie aspettative il padiglione francese, che a dispetto dell’architettura in legno, sostenibile e smontabile a fine manifestazione, progettata dallo studio X-TU, si è rivelato troppo mercatino: esposizione di un’enorme varietà di prodotti che generano soltanto confusione all’interno del vasto ambiente.
Al di là dell’architettura pulita, quasi purista, sostenibile, opera dello studio Quattroarchitetti, non mi ha fatto impazzire neanche il padiglione della Santa Sede, malgrado l’esplicito messaggio riportato in facciata: “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”, tradotto, nella prima parte, in tredici lingue. Il messaggio che si vuole trasmettere all’interno, attraverso documenti fotografici e opere l’arte, riguardante i tanti significati del “nutrire”, mi è sembrato molto debole.
Questo sembra essere il problema generale dell’Expo: troppi i messaggi nascosti che il visitatore non riuscirà mai neanche a percepire, tante le qualità e tantissimi i valori basati sui concetti comuni di sostenibilità e biodiversità che non sono così evidenti agli occhi della maggior parte dei turisti che, per l’esiguità del tempo a disposizione, non può far altro che rimbalzare da un padiglione all’altro con estrema superficialità.
Sorpresa, stupore, ammirazione o delusione, si susseguono raffiche di giudizi e opinioni sull’Expo, sulle singole architetture, quelle che emozionano di più o quelle che lasciano indifferenti: ma è un vero peccato che il lavoro di ogni singolo Paese rimanga piuttosto oscuro a tutti, salvo dedicare un po’ di tempo per approfondire il concept che è dietro ogni installazione.
Stanco dopo questa passeggiata? Ci siamo fatti almeno tre chilometri in due pagine di articolo, ma non è stato tanto pesante, almeno non quanto è stato faticoso fare le mille fotografie, da cui ho tratto la seconda photogallery, riportata di seguito: mi merito almeno lo sforzo di una tua impressione nei commenti?
Grazie, e resta collegato: le puntate sull’Expo non sono finite!
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Qualche approfondimento: Building the Expo, a cura di Domus